Liturgia & Musica

Questo spazio nasce dalla mia esperienza di moderatore della mail circolare "Liturgia&Musica", avviata nel dic. 2005 per conto della “Associazione Italiana Organisti di Chiesa” (di cui fui segretario dal 1998 al 2011) al fine di tener vivo il dibattito intorno alla Liturgia «culmine e fonte della vita cristiana» e al canto sacro che di essa è «parte necessaria ed integrante» unitamente alla musica strumentale, con particolare riferimento alla primaria importanza dell'organo.

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lunedì 12 dicembre 2016

Fuga di cervelli (organistici)...


Gentili lettori,

recentemente Papa Francesco ha detto che bisogna dare ai giovani opportunità di lavoro per evitare la cosiddetta "fuga di cervelli"!

Ci sarebbe da chiedergli: « ... ma, Santità, fare l'organista liturgico potrebbe essere un lavoro oppure è da ritenersi un servizio caritatevole al pari del volontariato alla mensa del povero?!»...

Mi piacerebbe che il Papa rispondesse così:

«Auspico che quelli che tra voi hanno svolto studi professionali e hanno ottenuto un titolo accademico, presso un Conservatorio di Stato o presso i nostri Pontifici Istituti di Musica Sacra, possano veder riconosciuto anche dal punto di vista economico il proprio talento musicale a servizio della Chiesa, a norma del canone 231 del Codice di Diritto Canonico e a tutto vantaggio del decoro della sacra liturgia che "è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia"»!

In particolare, ecco quello che il Papa potrebbe dire agli organisti: http://liturgiaetmusica.blogspot.it/2014/01/il-papa-agli-organisti.html .

Sta di fatto che sempre più giovani italiani decidono di trasferirsi all'estero per studiare e poi per lavorare a tempo pieno (o quasi) come musicisti di chiesa: «è doloroso che giovani preparati siano indotti ad abbandonare il proprio Paese perché mancano adeguate possibilità di inserimento» (queste sono le recenti parole di Papa Francesco)...

Santità, cosa possiamo fare per i giovani organisti italiani che bramerebbero mettere le proprie competenze professionali a servizio della Chiesa?!

Non mi aspetto una risposta... dato che nemmeno gli organisti che svolgono servizio nella basilica di S. Pietro in Vaticano godono di un regolare contratto di lavoro!

Grazie per la cortese attenzione.

Paolo Bottini

Cremona, il 12 dicembre 2016

domenica 4 dicembre 2016

Ceteris paribus




Gentili lettori,


sapete bene che molti vanno lamentandosi che la Chiesa, dopo il 4 dicembre 1963, ha definitivamente fatto morire il ruolo liturgico del canto gregoriano a dispetto di quanto indicato in "Sacrosanctum Concilium" n. 116:


« La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, A PARITA' DI CONDIZIONI, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica». [*]

E forse molti di voi da tempo vanno chiedendosi cosa voglia dire quel sibillino «a parità di condizioni» (nel testo ufficiale latino "ceteris paribus")!...

Per fugare ogni dubbio, mi pregio riportare qui in calce due autorevoli interventi in subjecta materia che spero potranno essere dirimenti.

Nell'attesa di vostri eventuali graditi commenti, vi ringrazio per l'attenzione e vi saluto cordialmente.

Paolo Bottini

Cremona, il 4 dicembre 2016, giorno del 53° anniversario della promulgazione della costituzione sulla liturgia "Sacrosanctum Concilium"

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Stiamo rileggendo alcune affermazioni della Sacrosanctum Concilium che nel corso degli anni sono state variamente interpretate. Vogliamo vedere se con qualche ulteriore riflessione si possano meglio chiarire.

Tra queste c'è quella relativa al canto gregoriano:

"La chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale". Nell'originale latino: "Ecclesia cantum gregorianum agnoscit ut liturgiae romanae proprium: qui ideo in actionibus liturgicis, ceteris paribus, principem locum obtineat" (n. 116).

In queste poche righe sono contenute tre affermazioni chiare e pacifiche.

- Si fa riferimento alla liturgia romana della quale il gregoriano è il canto per eccellenza. Tale identificazione ovviamente restringe l'ambito della questione; in altre parole il canto gregoriano è una questione che, di per sé, riguarda solo la liturgia romana.
Anche se per analogia la stessa questione si può trasferire nell'ambito della liturgia milanese relativamente al canto ambrosiano, o della liturgia beneventana o aquileiese in riferimento ai rispettivi repertori di canto. Operazione legittima, tenendo presente però che il deposito gregoriano è storicamente ed esteticamente il più importante, il meglio conservato, il più esemplare. Per cui è pienamente giustificata un "questione gregoriana", sia nella famiglia liturgica romana che nella più ampia comunità degli studiosi di altre famiglie liturgiche, perfino tra i non credenti, in considerazione degli alti valori spirituali, storici e artistici contenuti nel canto di Roma.

- Canto "proprio" della liturgia romana: qui c'è un riconoscimento da parte della Chiesa, una presa di posizione, una sorta di "definizione dottrinale".
Quanta musica e quanto diversa musica è stata scritta per la liturgia romana latina lungo i secoli, almeno dalla nascita della polifonia in poi. Tutta musica voluta, accettata, in qualche misura ripresa e riproposta fino ai nostri giorni, musica a volte sbagliata o sproporzionata o eccessivamente tiranneggiata dalle mode del tempo, ma il più delle volte adeguata e degnissima.
Tanta bella e buona musica, anche sotto il profilo liturgico, si è accumulata nella storia. Però solo il gregoriano è stato considerato "proprio" della liturgia romana.

- E perciò messo al 'primo posto', per logica conseguenza, in considerazione della sua storia, della sua singolare natura, dell'esemplare rapporto con i testi; "principem locum obtineat" anche da parte nostra, di noi che celebriamo nel terzo millennio, a prescindere, per ora, dalle innegabili difficoltà che il riconoscimento comporta.

Accanto a queste tre limpide affermazioni ci sta 'un inciso', breve e sibillino, che getta un po' di ombra e smorza ogni facile entusiasmo. "a parità di condizioni" (ceteris paribus), inciso che - legittimamente o meno - è stato subito riferito alla questione della partecipazione popolare.

Cosa significa "parità di condizioni"?

A cosa si riferisce questa parità? Ai repertori? Nel senso che i repertori popolari o polifonici devono equivalere in validità, spiritualità, efficacia rituale al canto gregoriano? Nel qual caso, pur potendosi scegliere fra tre uguali opzioni, è preferibile il canto gregoriano.

'A fortiori' se non c'è la parità, se cioè il canto popolare o polifonico fossero al di sotto del valore rituale e artistico del gregoriano. Se la parità si riferisce ai protagonisti, cioè ai fedeli che cantano (o ascoltano), allora il ragionamento andrebbe così impostato: come i fedeli sono in grado di capire il loro canto, la loro musica, il linguaggio del loro tempo, altrettanto devono saper recepire ed eseguire il canto gregoriano.

Se non c'è questa parità di preparazione e di comprensione il gregoriano perde il posto principale, risulterebbe un tabù da evitare. Gli va preferito una canto, forse meno paludato, ma pienamente compreso.

La condizione è dunque che i fedeli possano partecipare, comprendere, eseguire. Condizione che oggi - come vanno le cose, o come si sono lasciate andare - non si verifica quasi mai. Quindi!

Il discorso potrebbe chiudersi qui; e molti, nella Chiesa, lo hanno chiuso qui da anni. E ritengono inopportuno, "seccante", un ritorno sull'argomento, in quanto il canto gregoriano lo ritengono consegnato alla storia come prezioso oggetto da museo.

Noi pensiamo di poter andare oltre, ritenendo anzitutto indispensabile *distinguere tra chi esegue e chi ascolta*, se pur le due figure non coincidono.

*Coloro che eseguono* il canto gregoriano devono certamente conoscerlo, studiarlo; cosa che non è semplice, ma possibile a dei solisti o ad un gruppo scelto e motivato. Con una buona guida, con l'umiltà di procedere per gradi, con la gioia di scoprire tesori di bellezza e di spiritualità, costoro possono senza dubbio far propria la grande anima del canto gregoriano, anima medioevale e universale nello stesso tempo, da comunicare successivamente con intento di fraterna ministerialità ai sodali nella fede.

*Coloro che ascoltano* - i fedeli - devono essere messi nelle condizioni di recepire il "messaggio", al punto di sentirsi coinvolti e travolti dall'infallibile ondata orante che è la melopea gregoriana.

Non è impossibile: basta spiegare e tradurre il testo e metterlo a disposizione, introdurre il canto che tocca nelle sue generalità e nello specifico significato rituale con essenziali didascalie; distillare con intelligenza l'offerta gregoriana senza fanatismi ma con convinzione. Convinzione da estendere anche al fatto che ci può essere una vera e fruttuosa partecipazione di solo ascolto.

Qui sono gli animatori liturgici e musicali a peccare, in quanto si limitano ad utilizzare canti, gesti e movimenti solamente esteriori, a volte perfino banali (melodie e ritmi sguaiati, battimani, ondeggiamenti corporali.).

Anche se dell'antico canto i fedeli non posseggono una conoscenza e una pratica dirette, sono in grado comunque di arrivare ad una comprensione indiretta, con identici frutti spirituali, grazie all'ascolto consapevole e devoto. I fedeli hanno una sensibilità che aspetta solo di essere messa in vibrazione, in sintonia; che non è giusto defraudare dei modi più alti di preghiera. Lo si vede nei concerti, quanto la gente gradisca e assorbi avidamente le cose belle, pur impegnative, che si offre loro debitamente spiegate. Compreso il canto gregoriano.

Ma c'è un'altra considerazione da fare, importante e più direttamente riferita alle cosiddette "condizioni".

*Se ci sono già*, anche in misura parziale (circostanza fortunata e rara), vanno mantenute e incrementate come una bella tradizione, come una opportunità in più, una grazia che rende più agevole la preghiera e più adeguata l'introduzione ai santi misteri.

*Se non ci sono*, si può sempre tentare di crearle; possibilità che, stranamente, non viene mai presa in considerazione, un po' per pigrizia e un po' (o molto) per la paura di non riuscire, immaginando chissà quali sovrumane difficoltà. Si lasciano volentieri le situazioni come stanno, abdicando al dovere di educare.

"Educazione" invece è la parola chiave in queste cose: far conoscere, far capire, far amare, condurre per mano a pregare e a contemplare, dentro il "Sancta sanctorum", senza paura, con fiducia. Con vantaggio spirituale inimmaginabile.

Ce lo spiega il prof. Giacomo Baroffio:

"La Parola di Dio necessita di una mediazione che vada al di là della spiegazione filologica e dell'applicazione moraleggiante. Percepire la voce di Dio nella sua Parola è un'azione del cuore in ascolto [ecco l'ascolto, n.d.r.] di quanto le parole della Bibbia non riescono ad esprimere. La musica è il linguaggio privilegiato del cuore: di Dio e dell'uomo. Il canto gregoriano ha la forza di in-cantare, distoglie il cuore dalle preoccupazioni perché si dilati e si orienti a Dio nell'adorazione e nel silenzio attonito".


Siamo al 'top' della preghiera cantata, della contemplazione. Che squallore sentire suore di clausura trascinarsi con canterelli alla moda, su ritmi di chitarra! Nessuno che spieghi loro queste sublimità?

Ceteris paribus!

Siamo partiti da lì: due parole che vengono avvertite e presentate "terroristicamente" come un muro insormontabile. In realtà costituiscono più spesso un alibi per accantonare il problema o per non impegnarsi in una operazione culturale alla quale non si crede.

Se, al contrario, vi si crede lo sbarramento "ceteris paribus" viene smontato, le condizioni richieste vengono create e un po' di gregoriano può essere ricuperato, insegnato e cantato.

Ah! Rimane l'ideologia, una ideologia contraria per DNA ad ogni repertorio fossilizzato del passato, che si esprime più o meno così:

"Bisogna inventare un nuovo linguaggio liturgico-musicale.che presti attenzione al presente per far parlare la cultura viva dei fedeli. E oggi, questo lo si sta facendo, con difficoltà si tenta di far cantare il popolo con il proprio linguaggio, con il proprio stile. È il cristiano di oggi che vuol cantare al suo Dio e lo vuol fare con la propria sensibilità musicale. È importante che celebri bene e non che impari o ripeta un repertorio passato (compito della liturgia non è quello di salvaguardare repertori e culture del passato). Ogni comunità dovrebbe avere il suo repertorio, e non invidiare altre comunità che hanno repertori più belli: dovrebbe invece preoccuparsi che il proprio repertorio l'aiuti a realizzare gesti vivi e a celebrare bene". (1)

Riassunto della citazione: col gregoriano non si celebra bene. bisogna inventare un linguaggio d'oggi per gesti vivi. Sbaglia la Chiesa ad additare un repertorio morto. Se poi ci si mette anche Benedetto XVI!

È l'indirizzo di un Ufficio liturgico diocesano! Si caecus caecum ducit!     

Anche il gregoriano può essere linguaggio nostro perché lo è della Chiesa millenaria; come la cattedrale romanica è nostra come lo fu dei cristiani del sec. XII.
Anche il gregoriano favorisce un pregare vivo e profondo perché trasmette interiorità più di qualunque canto "attuale" a cui allude il responsabile di quell'Ufficio liturgico.

Un'ultima osservazione.

Quelli della tesi negazionista si fanno forti del n. 50 dell'istruzione "Musicam Sacram" (1967) che, con un'aggiunta al testo conciliare, dice:

"Nelle azioni liturgiche in canto, celebrate in lingua latina, al canto gregoriano, come canto proprio della liturgia romana, si riservi, a parità di condizioni, il posto principale".


L'aggiunta "celebrate in lingua latina" sembra voler mitigare l'affermazione della Sacrosanctum Concilium: la disposizione - secondo l'aggiunta esplicativa - si riferirebbe unicamente a una celebrazione tutta in lingua latina, idioma al quale il gregoriano è indissolubilmente legato.

Siccome liturgie integralmente in latino non se ne fanno praticamente più, la raccomandazione di cui ci stiamo occupando non ha più molto senso, cade da sola. E il presunto primato del gregoriano verrebbe fortemente ridimensionato. Del resto far cantare la gente in latino oggi sarebbe una scelta pastorale controproducente.

Ragionamenti capziosi, che non colgono o non vogliono cogliere tutta l'ampiezza del discorso, che va ben oltre la messa latina del concilio di Trento o del Vaticano II.

Lo stesso concilio Vaticano II nel successivo n. 117 ha chiesto "un'edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di san Pio X" e ha ordinato una edizione "con melodie più semplici ad uso delle chiese minori" (ciò che fu fatto con il "Graduale simplex"); Paolo VI ha inviato a tutti i vescovi il libretto "Jubilate Deo" perché in qualche misura continuasse la pratica del gregoriano nella Chiesa romana; Giovanni Paolo II nel Chirografo "Mosso dal vivo desiderio" del 2003 ne parla con una certa ampiezza, usando le stesse parole di Pio X e Benedetto XVI ne auspica almeno un parziale ritorno, a riprova che il canto gregoriano è considerato attuale, riferito anche alla nostra liturgia riformata, in qualunque lingua e forma venga celebrata.

La "Sacrosanctum Concilium" (documento prioritario e più autorevole rispetto all'istruzione "Musicam Sacram") infatti non fa distinzioni; inoltre stabilisce che "L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini" (n. 36).

La volontà di fondo della Chiesa è più che chiara, vuole che il canto gregoriano rimanga nella liturgia: come preghiera viva e non come espediente per "salvare un patrimonio". E non sarà un gruppetto scalpitante di musicologi, o liturgisti che siano, a stravolgere l'evidenza di una costituzione conciliare.

Rimangono le difficoltà, alle quali abbiamo accennato. Queste si, indubbiamente. E non sono da sottovalutare.

Come non è da banalizzare la *questione-gregoriano nel suo insieme* oggi nella Chiesa cattolica romana. E neppure è il caso di farne meschina questione di documenti più o meno chiari. Siamo i primi ad esserne coscienti. È un problema pastorale troppo serio.

A noi interessava sapere fino in fondo come stanno le cose.
Nel concreto ognuno poi si comporterà responsabilmente come crede, o come già sta facendo.

Una volta tanto possiamo sottoscrivere quanto afferma Felice Rainoldi a questo proposito:

"Bisogna conoscere bene le possibilità sempre attuali di un repertorio di genuina ricchezza, ed insieme valutare il limite intrinseco di uno sconsiderato uso liturgico del gregoriano. Né idolatrie dunque, né miopie allergiche. Come ogni tesoro, esso deve aiutarci a vivere da credenti nella storia. Solo nella misura in cui potrebbe ostacolare una crescita o un cammino, anche un tesoro potrebbe essere considerato zavorra da scaricare". (2)

Solo l'ignoranza e l'impreparazione, però, possono far considerare il gregoriano un ostacolo alla crescita.

don Valentino Donella


NOTE

1 - "Situazione e prospettive della musica sacra", a cura dell'Ufficio liturgico di Bari, in Bollettino Diocesano, luglio-agosto 1981, p. 64. La posizione preconcetta e negativa nei confronti del canto gregoriano è, però, comune a tutta l'area del movimento "Universa Laus".

2 - "Gregoriano (repertorio e canto)", Glossario, in Musica e Assemblea, n. 114, 2/2000, p. 23.


- [il sopra citato articolo di don Valentino Donella è stato pubblicato in «BOLLETTINO  CECILIANO», ANNO 104, N. 3, Marzo 2009


§ § §


Premessa essenziale: ogni epoca ha diritto di modificare il proprio linguaggio parlato o cantato, cosa che avviene inevitabilmente e per epoche storiche. Anche il canto gregoriano ha subito una complessa evoluzione e innumerevoli addattamenti specialmente dopo il sec. VIII con importanti commistioni di canti di provenienza gallicana, mozarabica, anglicana ...

Il canto liturgico non prevede nessun tipo di fissità, ma si modifica attraverso una continua, sapiente selezione dalla quale emergono e si stabiliscono più o meno a lungo i canti che meglio interpretano la Parola rituale.

L'espressione "ceteris paribus" è la chiave di comprensione per evitare le innumerevoli discussioni che si contorcono intorno alla possibilità o meno di inserire qualche canto gregoriano nel repertorio musicale celebrativo.

Esiste dunque, da un lato il canto gregoriano, da secoli repertorio esemplare per la sua forza interpretativa dei testi celebrativi cristiani; un canto che esalta fino all'ornamento melodico il contenuto della Parola sacra; abbiamo dall'altro lato il canto su testi in lingua parlata che mira allo stesso scopo con alterni risultati.

Per creare un repertorio adeguato si richiedono secoli di intelligenti selezioni ...

Il n. 116 della SC intende dichiarare l'esemplarità del canto gregoriano in riferimento al servizio della Parola celebrativa. Non intende escludere altri repertori, purché si avvicinino al repertorio che nel tempo si è mostrato somma interpretazione della Parola liturgica.

"Ceteris paribus", tradurrei liberamente: dovendo scegliere tra "repertori diversi, ma ugualmente efficaci nell'interpretare un adeguato testo liturgico"; dato per scontato che i testi siano compresi, che gli esecutori siano in grado di eseguirne le melodie decorosamente, che i destinatari siano in grado di capire e di eseguire, si dia la preferenza (non esclusiva) al canto gregoriano.

Perché? il canto gregoriano è il frutto di secoli di contemplazione, studio, approfondimento sapienziale e tecnico, di esperienza nella vita, della Parola biblico-liturgica (cosa che non si può dire avvenga per tutti i compositori che scrivono e gli esecutori che cantano oggi per la liturgia).

Amore alla liturgia, preparazione professionale dei responsabili, umiltà e senso critico, autocritico, conoscenza del "bello musicale", sono le condizioni indispensabili per giungere alla formazione di un repertorio degno del celebrare cristiano.

fra' Olivo Damini OFM