tutti hanno conosciuto Oscar Mischiati come un personaggio - diciamo così - di non facile approccio... ma quel che è certo, egli era un sapiente e una persona di buon senso: lo dimostra lo scritto che Vi consegno qui in calce (dettato ormai quasi trent’anni fa), il quale credo sia gradito alla maggior parte di Voi, in quanto non molto noto.
Paolo Bottini
Intervento di OSCAR MISCHIATI nel convegno di studi
"I beni culturali ecclesiastici tra culto e tutela"
Promosso dalla Amministrazione Provinciale di Varese con la collaborazione di:
Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici della Lombardia
Commissione per la Tutela degli Organi Artistici
Consulta regionale per i beni culturali ecclesiastici della Lombardia
Sabato 24 gennaio 1987
Il patrimonio organario antico italiano è ricchissimo, non solo per la quantità, ma anche per la qualità e varietà.
È difficile, allo stato attuale delle conoscenze, fornire dati precisi sulla consistenza, considerata anche l’estrema disuguaglianza nella distribuzione territoriale: ad esempio una provincia come quella di Belluno presenta soltanto un’ottantina di strumenti con interesse storico-artistico, la sola città di Bologna ne possiede oltre un centinaio. D’altro canto, se alcuni tipi d’organo (quello veneziano settecentesco, quello lombardo ottocentesco) presentano caratteri abbastanza diffusi e comuni (ciascuno nel proprio genere, ben inteso), profonde diversità qualificano e segnano gli strumenti attraverso i tempi e i luoghi: un organo rinascimentale toscano non è la stessa cosa di un coevo strumento lombardo. E gli esempi potrebbero continuare.
La maggior parte di tale patrimonio versa in condizioni precarie di sopravvivenza, vuoi per prolungati periodi di abbandono (segnati dai danni prodotti dal tarlo, dai topi, talvolta dallo stillicidio dell’acqua piovana), vuoi per azioni vandaliche di asportazione e danneggiamento del materiale (tipico il caso di canne divelte e calpestate), vuoi infine per interventi inconsulti di manomissione: perlopiù volti ad adattare gli strumenti alle limitate cognizioni musicali e al cattivo gusto di organisti dilettanti, sprovveduti o velleitari; s’intende alludere alla sostituzione di tastiere e pedaliere ’più comode’ rispetto alla presunta scomodità di quelle originali, così come all’eliminazione di autentiche sonorità organistiche (Flauto in XII, Cornetto, registri ad ancia, file acute di Ripieno) perché ’stridule’ e alla loro sostituzione con materiale scadente (zinco) confezionato in maniera industriale e finalizzato ad effetti sdolcinati e d’infimo gusto, estranei all’arte e alla cultura musicale, meno che mai convenienti ai livelli di qualità e di dignità del tempio e del rito.
Eppure queste operazioni per lunghi (troppo lunghi!) decenni sono state qualificate come "riforma liturgica" laddove è da stigmatizzare un atteggiamento tuttora perdurante: quello di assumere come metro di valutazione degli organi (e non solo quelli) una categoria storicamente e culturalmente inconsistente quale quella di "liturgico" (ciò che era liturgicamente tassativo per Pio XII non lo è stato più con Paolo VI; né la situazione ha finora cessato di essere fluida; ma qui basti rilevare la relatività del termine).
Con il decadere dell’esercizio della musica in chiesa da livelli di qualità non di rado prestigiosa (di necessità, storicamente concreta e individuata: di volta in volta il gregoriano nel periodo romanico, la primitiva polifonia nel gotico, la grande arte contrappuntistico-imitativa nel Rinascimento e nel Barocco, lo stile "concertato" nel Barocco fino a ben addentro l’Ottocento) a livelli non professionali si accompagnò un singolare fenomeno: la codificazione ufficiale della mediocrità.
Ma non meno assurde e ridicole sono le pretese "liturgiche" attuali di volere l’organo o l’organista in mezzo all’assemblea, confondendo pateticamente le esigenze del canto assembleare con le leggi dell’acustica e con le esigenze di un serio esercizio dell’arte dei suoni.
In ossequio a tale confuso velleitarismo si vorrebbero comandati gli organi a distanza mediante trasmissione elettrica, di fatto contraddicendo all’esigenza primaria della fonte sonora prossima a chi canta e suona e indulgendo ad un tipo squalificato di organo ripudiato universalmente dalla cultura organistica e musicale.
Senza contare che la riforma protestante e calvinista sono riuscite a far cantare le assemblee dei fedeli senza rimuovere o manomettere gli organi; più semplicemente e correttamente si è inculcata l’educazione musicale di base generalizzata, si è allestito un repertorio musicale qualificato ed appropriato di canti e si è affidato l’organo ad un professionista. Tutte cose che non si ottengono dall’oggi al domani, come "italianamente" si è preteso di fare in maniera confusa e pasticciona.
E come un tempo le commissioni diocesane di musica sacra inculcavano e benedicevano le riforme liturgiche degli organi - di fatto perseguendo un assurdo appiattimento e livellamento in netto contrasto con una tradizione senza pari per varietà e fantasia creativa, senza contare l’avallo perennemente concesso agli operatori più squalificati del settore (cui rifiutiamo per ragioni oggettive la qualifica di "organari") - così oggi da quegli stessi ambienti diocesani si ribadiscono posizioni in netto contrasto con gli indirizzi più aggiornati in campo organistico, organario, organologico e di tutela del patrimonio strumentale antico.
È stata quindi condizione storica strettamente necessitante per quanti nel nostro Paese hanno a cuore senza riserve la tutela e l’integrità del patrimonio storico organario richiamare l’attenzione degli uffici statali preposti a quelli che oggi complessivamente si usa chiamare "beni culturali" perché in questi ultimi fossero a pieno titolo compresi gli organi e gli strumenti musicali.
La situazione è lungi dall’aver trovato soddisfacente soluzione, anche perché nel nostro Paese, per una singolare distorsione di vecchia data, la tutela - e di conseguenza la preparazione dei funzionari ad essa preposti - è sempre stata ed è tuttora finalizzata ai fatti "visivi" (senza contare i condizionamenti delle valutazioni "estetiche"), disprezzando gli aspetti essenzialmente "storici", materiali e documentari dei manufatti e delle testimonianze in genere del passato: più volte, infatti, è accaduto che la "tutela" degli organi antichi giungesse a salvaguardare il solo prospetto, come se le canne interne e tutto il resto (tastiere, complesso dei comandi e dei meccanismi, somieri ecc.) non fossero anch’essi "oggetto" di rilevanza storica ed artistica ad un tempo. Quando addirittura non è accaduto che per mal inteso purismo architettonico organo e cantoria sono stati spazzati via come elemento ingombrante e "deturpante" (così nella Cattedrale di Pistoia o alla Madonna del Calcinaio a Cortona).
Un allargamento del campo visuale è quindi urgente e necessario, non solo in ottemperanza al dettato costituzionale, ma anche per adeguare l’opera della pubblica amministrazione agli orientamenti culturalmente più avvertiti e prevalenti da tempo nei paesi civili.
Ma l’intervento pubblico in materia organaria si giustifica anche per altri motivi.
Quando si parla di "chiesa", normalmente si identifica ’sic et simpliciter’ con la gerarchia; occorrerebbe ricordare che, più correttamente. Chiesa è la comunità di fedeli e di clero. A quest’ultimo spettano incontestabilmente i compiti magisteriale e sacramentale per la salvezza delle anime. Il "temporale" è invece incombenza dei fedeli costituiti, come cittadini, in legittime pubbliche aggregazioni, in una parola lo Stato, nella fattispecie la repubblica; della quale sono pure cittadini - con parità di doveri oltre che di diritti - i membri del clero e della gerarchia.
Sembra invece che a più di cent’anni di distanza questi ultimi non abbiano ancora accettato di buon animo la fine dello Stato pontificio e si considerino - e di fatto molto spesso si comportano - come se lo Stato non esistesse o addirittura come se l’intervento statale nel merito specifico della tutela storico-artistica (e quindi anche organaria) fosse un’illecita intrusione, una prevaricazione laicista nei fatti di culto e di religione.
Di qui la tendenza degli ecclesiastici in genere a sottrarre al "civile" quanto più è possibile e a gestirlo quale patrimonio esclusivo: in particolare, appunto, i beni culturali cosiddetti ecclesiastici, a cominciare dagli archivi; che sono innumerevoli, spesso imponenti, ma raramente gestiti correttamente e accessibili o fruibili in condizioni soddisfacenti per lo studioso.
Se è vero che il clero (anche per l’assottigliamento dei ranghi in conseguenza sia della flessione delle vocazioni, sia delle innumerevoli riduzioni allo stato laicale determinate dagli smarrimenti pre- e post-conciliari) è letteralmente travolto dalle incombenze pastorali, non si vede perché tali patrimoni archivistici non vengano depositati presso quelle strutture pubbliche create - nell’interesse di ’tutti’ - per la conservazione e la consultazione del materiale documentario che vi è conservato.
Ulteriore, elementare, ma - a quanto sembra - non altrettanto ovvia osservazione è che i beni culturali cosiddetti ecclesiastici sono proprietà non del clero, ma della chiesa, quindi anche dei fedeli. Non esistendo nell’ambito di quest’ultima forme e strutture amministrative o rappresentative dei fedeli stessi per una gestione culturalmente avvertita e comunitarimente trasparente di tale patrimonio (come lo erano le "opere" o le "fabbricerie", esistite con validità civile, giurica dal Medioevo al concordato del 1929), non si vede come tale compito non possa e non debba essere esercitato da quegli istituti pubblici, statali, esistenti in quanto prefigurati e regolati da leggi che i cittadini medesimi si sono date. È anzi sorprendente come il clero non riesca ancora oggi a concepire il pubblico ufficio come una struttura ’anche al suo servizio.
Certo, è storicamente più che giustificata la diffidenza, l’estraneità o l’insoddisfazione del cittadino nei confronti di questo Stato italiano e delle sue strutture, per lo più arcaiche, fatiscenti, inefficienti, lente, paralizzanti, onerose, insufficienti. Ma non è men vero che questo deplorevole stato di cose è anche storicamente frutto di plurisecolari prevaricazioni clericalesche e, in tempi a noi più prossimi, del valoroso contributo di "cattolici", politicamente o meno impegnati.
Altra materia di considerazioni è quella in ordine alla storia della cultura.
È infatti fuori di dubbio che al tutela rigorosa e il restauro storico-filologico sono caratteristica dei nostri tempi nel rapporto con i manufatti storico-artistici del passato; ed è altrettanto certo che il concerto e la prassi del restauro mutano nel tempi: si affinano i procedimenti, si arricchiscono le conoscenze e le esperienze, si moltiplicano le occasioni di verifica e di confronto, , si allarga il campo dell’attenzione; fino ad una dozzina d’anni addietro, ad esempio, non si prestava attenzione al recupero del "temperamento" antico nell’accordatura degli organi; ed è di questi ultimissimi tempi l’adozione della camera a gas anche in campo organario quale mezzo di disinfestazione dal tarlo delle parti lignee.
Tutte materie, come ognun vede, oggetto e fonte di studio, di ricerche, di dibattiti, di pubblicazioni; tutte cose cui certo il clero non è istituzionalmente tenuto né attrezzato.
Ma in ordine a quella stessa storia della cultura sarà lecito discutere e avanzare riserve in merito a scelte storicamente determinate della gerarchia: l’immagine, ad esempio, di una chiesa (come edificio), sobria, povera di immagini e di decorazioni non è - come si pretende da qualcuno - una reazione al tardo romanticismo, ma è piuttosto figlia proprio di quel romanticismo soggettivista che ha scarnificato la fede riducendola a "sentimento" e a fatto privato di coscienza, negando di fatto il concetto stesso di "religione" come rapporto oggettivo con il trascendente e demotivandone di conseguenza le manifestazioni esteriori.
Altrettanto discutibile che il rito si debba ridurre ad un fatto prevalentemente verbale, ossessivamente amplificato da microfoni e altoparlanti, impoverito di segni e di immagini, di valori estetici e simbolici, musicali, gestuali ecc., in un curioso, imprevedibile revival illuministico, in contrasto con tutta una ben radicata tradizione della nostra cultura, cui in definitiva si riconnettono da un lato la forma dialogica della filosofia platonica e dall’altro la struttura narrativa per parabole del testo evangelico.
Forse non era mai accaduto che la chiesa dovesse misurarsi con il giudizio in sede di storia della cultura, per secoli essendo stata essa stessa matrice di cultura; ma da quando ha cessato di svolgere questa funzione è andata anche scemando la sua credibilità (per usare un termine oggi di moda), essendo venuto meno l’oggettivo metro di valutazione del proprio ’modus operandi’ in seno all’umano consorzio.
La confezione di modelli sentimentali evasivi o fittizi o perlomeno di puro riferimento interno all’istituzione stessa - "exempli gratia" il liturgico (o la trilogia, ormai classico, di "bibbia, liturgia e terzo mondo") - non è certo idonea e sufficiente a reggere l’impatto con la cultura spesso ostile del mondo moderno; di qui il patetico smarrimento, l’acritico assorbimento o il disinvolto opportunismo di tanta parte del clero e del cosiddetto "mondo" cattolico.
In simile contesto non è certo tollerabile che gli organi antichi continuino ad essere vittima di mutevoli umori liturgici, quando per lunghi secoli essi hanno egregiamente svolto le loro funzioni; che poi l’attuale mutevolezza sia il segno di una chiesa - come qualcuno suppone - "più pura, più santa e più evangelica" di quella anteriore al Concilio Vaticano II è soltanto indice di confusione associata ad una presunzione d’orgoglio luciferino, purtroppo priva di concreti riscontri oggettivi.